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venerdì 17 aprile 2015

Aforismi Sul 25 Aprile Liberazione


"..non c’ero e non conosco cosa accadde…
diffido dalla storia ufficiale
non ci vedo mai riferimenti alla gente comune.
Ho viaggiato per il mondo, senza tregua senza sosta, per lunghi anni. E quello che porto nel cuore non sono personaggi ma persone, gente comune e il loro quotidiano. Ogni loro racconto per me è un piccolo grande tesoro, di un valore inestimabile.
Non c’ero e non conosco cosa accadde…
ma so che oggi vivo un presente da uomo libero.
E questo mi basta per credere che oggi sia un giorno speciale”
Anton Vanligt
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Il 25 aprile è la Festa della Liberazione d’Italia, un italiano veramente libero è colui che vive, lavora, ama la propria terra. Lo stato in nessun modo non dovrebbe ostacolare questa sua sacrosanta libertà di uomo italiano. Siamo sicuri che questo accada?
Stephen Littleword, Aforismi
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Un popolo ha la libertà per cui è disposto a lottare.
Stephen Littleword, Aforismi
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Sul 25 aprile si sono scritti Trattati, Pensieri, Frasi, Poesie, cio’ che rimane è la conquista dell’uomo della sua libertà spinto, più che mai a ribellarsi a ideali in cui non credeva, ad una soppressione anacronistica. Dovremmo tutti imparare dalla storia, per trovare la forza di dire “no” e lottare per la libertà.
Stephen Littleword, Aforismi
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E quest’Italia, un’Italia che c’è anche se viene zittita o irrisa o insultata, guai a chi me la tocca. Guai a chi me la ruba, guai a chi me la invade.
Oriana Fallaci, La Rabbia e l’Orgoglio
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Avevo Due Paure
La prima era quella di uccidere
La seconda era quella di morire
Avevo diciassette anni
Poi venne la notte del silenzio
In quel buio si scambiarono le vite
Incollati alle barricate alcuni di noi morivano d’attesa
Incollati alle barricate alcuni di noi vivevano d’attesa
Poi spuntò l’alba
Ed era il 25 Aprile
Giuseppe  Colzani
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Sulla Resistenza ormai sono state dette e scritte così tante parole e si sono viste così tante immagini che il rischio più preoccupante è l’oblio pianificato. E in Italia sono in troppi quelli che preferiscono dimenticare (non solo la Resistenza e i partigiani). O uno, per volontà e motivazioni personali, sa orientarsi nel labirinto di memorie, di interpretazioni storiografiche e di polemiche politiche, oppure forse è più utile prendere uno zaino e infilarsi un paio di scarponi. Per ricordare bisogna camminare.
DIEGO MARANI * Sentieri partigiani in Italia
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Ponte 25 aprile riccione

L’impuro è il risultato della tensione verso la purezza. Senza questa tensione quel che risulta è il bruto.
Non voglio qui ora fare un discorso politico sul valore dell’espressione “scacco della Resistenza”, solo constatare che non è per questa Italia che tanti uomini hanno affrontato la morte. Il problema che mi pongo è se essi, prevedendo questo esito del loro sacrificio, lo avrebbero ugualmente compiuto. Ma è forse una legge storica che i periodi di tensione, nei quali le concezioni divergono al massimo e sanguinosamente si combattono, siano introduzioni a durevoli contaminazioni reciproche. […]
Abbiamo scoperto tutto questo, lo abbiamo scoperto, intendo, non nei libri, ma nel vivo della nostra esperienza. Cioè siamo stati una delle punte della forbice al momento della sua massima divaricazione, e ora siamo nel mezzo dei processi di osmosi. Sentiamo che più nulla c’incanta. E pensiamo talvolta malgrado tutte le asserzioni ufficiali, che i ribelli sono morti invano, che la Resistenza è stata tradita, e che nessuno potrebbe indurci, oggi, a compiere atti nobili e rischiosi di cui il futuro traviserebbe lo scopo.
L’efficienza e la vitalità, rispettivamente nella sfera del lavoro e in quella della vita privata e del tempo libero, sono i due ideali etici antropologici della civiltà industriale nella sua fase più avanzata. Ma la cosa strana da constatare, se si giudica fuori da storicismi e determinismi e con un briciolo di distacco a rischio di essere tacciati di metastorici, è che efficienza e vitalità sono doti selvagge, cioè, meglio, espessioni ultracivilizzate di attitudini sostanzialmente ferine. Niente è più efficiente di una formica, di un’ape; e niente più trionfalmente vitale di una belva nella foresta. Mentre nulla è più umano della meditazione, del dubbio, e persino dell’ozio perplesso.
Significa dunque ciò che la storia è il fallimento dell’uomo? O meglio della sua illusione e presunzione, e la vittoria sotto altre forme della sua natura di bruto?
Una delle cause, non la maggiore ma neanche la minore, dell’attuale disfatta civile e morale e di conseguenza intellettuale dell’uomo, è il fatto che nessun membro influente della società, cioè nessuno che sia superiore al sospetto di personale insoddisfazione o malanimo, ha il coraggio di uscire dal gioco, di ribellarsi all’omertà, di offrirsi come bandiera, come esempio, o quantomeno come interprete e vittima innocente, all’impotente ribellione di tutti.
LUCA CANALI, LA RESISTENZA IMPURA
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gli uomini che coraggiosamente avevano scelto di impegnarsi nella lotta di Liberazione dall’occupazione nazi-fascista, quando nei brevi e rari momenti di tregua si dedicarono a comporre canti o alla rielaborazione di vecchie canzoni popolari, non pensavano di fare storia. Per loro questi momenti costituivano occasioni di coesione attorno alle quali si rafforzava il senso di appartenenza ad una comune identità e di partecipazione ad una stessa causa. La storia “vera” si faceva nelle rischiosissime azioni militari. Emblematica è la testimonianza firmata “Zona partigiana, dicembre 1944″ che introduce l’opuscolo Canti partigiani pubblicato dalla Sezione stampa “Sergio” della Sesta zona operativa.
«Dopo la riunione serale, cantiamo. […] Di rado c’è il vino, né si canta per far passare la nostalgia: non è fatta di questo la vita partigiana che consiste nel camminare, nel fare azioni, nell’eliminare intorno e dentro di sé ogni residuo di fascismo diventando liberi, eguali, coscienti moralmente e politicamente […]. Si canta tutti insieme nel casone seduti in due tre file attorno al fuoco, presso le armi, sotto le calze che asciugano, e la contentezza nasce appunto dal sentirsi così uniti: […] anche i piccoli dissensi della giornata si sciolgono in quel canto e i cuori sono pieni della stessa gioia.
Sul ritmo di vecchie canzoni antifasciste ed alpine (e anche questo è naturale per la somiglianza che c’è tra la vita alpina e quella partigiana, per il fatto che reparti interi di alpini hanno disertato passando nelle nostre file e perché antifascista è sempre stato il sentimento delle canzoni alpine, come di quelle della Julia proibita dai fascisti) e su nuove cadenze sono nati i canti partigiani.
Alcune delle voci che li intonavano con noi, tra le più coraggiose e oneste, si sono taciute. Quando tutti insieme, dopo la riunione serale cantiamo, ci pare che tra le nostre voci unite ci siano anche quelle: pure e serene esse sostengono il nostro canto, gli danno la certezza della prossima liberazione».
Veramente la costruzione e il rafforzamento di una comune identità politico-sociale, si deve considerare fattore secondario nella gerarchia dei fatti “storici”? Oppure, per la sua capacità di agire, di incidere sulla materia della realtà, non è il caso di considerarla come un momento decisivo e perciò “storico”?
GIOACHINO LANOTTE * CANTALO FORTE
D’accordo, farò come se aveste ragione voi, non rappresenterò i migliori partigiani, ma i peggiori possibili, metterò al centro del mio romanzo un reparto tutto composto di tipi un po’ storti. Ebbene: cosa cambia? Anche in chi si è gettato nella lotta senza un chiaro perché, ha agito un’elementare spinta di riscatto umano, una spinta che li ha resi centomila volte migliori di voi, che li ha fatti diventare forze storiche attive quali voi non potrete mai sognarvi di essere!
***
“Quando cominciai a sviluppare un racconto sul personaggio d’un ragazzetto partigiano che avevo conosciuto nelle bande, non pensavo che m’avrebbe preso più spazio degli altri. Perché si trasformò in un romanzo? Perché – compresi poi – l’identificazione tra me e il protagonista era diventata qualcosa di più complesso. Il rapporto del personaggio del bambino Pin e la guerra partigiana corrispondeva simbolicamente al rapporto che con la guerra partigiana m’ero trovato ad avere io. L’inferiorità di Pin come bambino di fronte all’incomprensibile mondo dei grandi corrisponde a quella che nella stessa situazione provavo io, come borghese. E la spregiudicatezza di Pin, per via della tanto vantata sua provenienza dal mondo della malavita, che lo fa sentire complice quasi superiore verso ogni «fuori-legge», corrisponde al modo «intellettuale» d’essere all’altezza della situazione, di non meravigliarsi mai, di difendersi dalle emozioni… Così, data questa chiave di trasposizioni – ma fu solo una chiave a posteriori, sia ben chiaro, che mi servì in seguito a spiegarmi cos’avevo scritto – la storia in cui il mio punto di vista personale era bandito ritornava ad essere la mia storia…
La mia storia era quella dell’adolescenza durata troppo a lungo, per il giovane che aveva preso la guerra come un alibi, nel senso proprio e in quello traslato. Nel giro di pochi anni, d’improvviso l’alibi era diventato un qui e ora. Troppo presto, per me; o troppo tardi: i sogni sognati troppo a lungo, io ero impreparato a viverli. Prima, il capovolgersi della guerra estranea, il trasformarsi in eroi e in capi degli oscuri e refrattari di ieri. Ora, nella pace, il fervore delle nuove energie che animava tutte le relazioni, che invadeva tutti gli strumenti della vita pubblica, ed ecco anche il lontano castello della letteratura s’apriva come un porto vicino e amico, pronto ad accogliere il giovane provinciale con fanfare e bandiere. E una carica amorosa elettrizzava l’aria, illuminava gli occhi delle ragazze che la guerra e la pace ci avevano restituito e fatto più vicine, divenute ora davvero coetanee e compagne, in un’intesa che era il nuovo regalo di quei primi mesi di pace, a riempire di dialoghi e di risa le calde sere dell’Italia resuscitata.
Di fronte a ogni possibilità che s’apriva, io non riuscivo a essere quello che avevo sognato prima dell’ora della prova: ero stato l’ultimo dei partigiani; ero un innamorato incerto e insoddisfatto e inabile; la letteratura non mi s’apriva come un disinvolto e distaccato magistero ma come una strada in cui non sapevo da che parte cominciare. Carico di volontà e tensione giovanili, m’era negata la spontanea grazia della giovinezza. Il maturare impetuoso dei tempi non aveva fatto che accentuare la mia immaturità.
Il protagonista simbolico del mio libro fu dunque un’immagine di regressione: un bambino. …”
ITALO CALVINO – La Prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno

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